lunedì 27 febbraio 2012

COME UN MANGIANASTRI ROSA PUO CAMBIARTI LA VITA (RACCONTO TRATTO DA BRUCESTELLERS)

«C’è chi sulla sua strada ha incontrato Elvis, chi Dylan, chi, molto tempo prima, Giovanni Battista o San Paolo... a me è toccato lui, Joe Strummer», diceva Marino Severini dei Gang. Parole sante. Però, senza nulla togliere a questi (Joe in primis), a chi vi scrive è toccato invece Bruce Springsteen.
E pensare che tutto ebbe inizio per caso, con uno di quei furtarelli che, ancora in bermuda, si facevano più per abbattere la noia che per reale necessità.
Era l’inverno del 1988, l’epoca di
Tunnel of love (per il tredicenne Wood un suono labiale del genere, se percepito, poteva far pensare al massimo all’ultima giostra di Gardaland) e come d’abitudine il sottoscritto, con un paio di siffatti disgraziati, andava a fare il "furtour" all’interno dell’allora unico luogo dove, oltre espropriare, si poteva anche abbattere un po’ il tempo: la Standa.
Quel giorno però, a essere presi di mira dal mio spirito cleptomane non furono, come consuetudine, gli scaffali del supermercato, bensì quelli del reparto musica, zeppo di musicassette, oggetti, almeno come utilizzo, a me ancora sconosciuti (figurarsi se c’era un soldo per acquistare un qualsiasi marchingegno capace di estrapolare il suono contenuto in quelle scatolette). Con il consueto gioco di prestigio delle tre dita che aspiravano sotto la manica della giacca ogni oggetto che passava sotto i polpastrelli, quel giorno a smaterializzarsi dagli scaffali fu una musicassetta sulla cui copertina appariva un tizio in t-shirt e blue jeans, cappello da baseball nella tasca posteriore ed una cinta borchiata, un vaccaro insomma.
Neanche il tempo di pensare alle cinquemila lire che avrei potuto ricavare dalla vendita di tale oggetto, che il Dio degli atei mi venne incontro ricordandomi che mia sorella possedeva una specie di mangianastri rosa, di quelli presi con i punti Dixan, con il quale decisi di disinvestire la mia refurtiva.
Ebbene amici, quella fu forse la mossa più azzeccata della mia esistenza. Quella scatoletta nastrata, a uno che al massimo si era emozionato ascoltando le ultime hits di Sanremo in qualche fottuta radio libera, aprì non uno, ma dieci universi paralleli assieme. Talmente roteò quel nastro nel mangianastri
Dixan che lo stesso, ben presto, andò in frantumi.
Fortunatamente, in seguito, qualche paghetta mi portò un vero stereo, con annessi vinili e soprattutto
Tunnel of love e The wild, the innocent & the E Street shuffle…da lì il passo fu breve nel vincolare mio fratello a farmi da balia per assistere a quello che diventò il primo dei più di venti concerti di Bruce ai quali ho assistito: Roma, 15 giugno 1988, stadio Flaminio, ovvero il giorno in cui Wood divenne devoto: il rock come religione, Bruce come profeta.
Saltiamo, per motivi di spazio, la narrazione dello stupro orgiastico di emozioni che il mio corpo e la mia psiche subirono quella mia prima volta. Parliamo invece della metamorfosi che, da lì, subì la mia persona.
Come ogni devoto che si rispetti, in poco tempo m’impossessai (legalmente) di tutto ciò che riguardasse il profeta: LP, libri, videocassette, bootleg e via dicendo. Tutti oggetti barattati. Sì, perché lui, in cambio, si impossessò della mia persona. Come? Semplice. Cominciai a indossare, come lui, quei jeans aderenti talmente sevizia-testicoli che gli stessi, ancora oggi, implorano pietà, come del resto la implorano i miei piedi che, a furia di indossare stivali Frye, anche con il sole allo zenit nel giorno più torrido dell’anno, sono ormai tutti un callo. Per non parlare poi delle inguardabili maniche delle t-shirt ripiegate su se stesse, che mi hanno fatto addossare la nomea di studente dal peggior look per tutto il quinquennio del liceo. Ma andava bene cosi, perché la mia giacca nera di pelle da Fonzie, che Bruce non ha mai fatto passare di moda, è sempre al suo posto, pronta a essere rispolverata ad ogni prima ventilata di fresco; come al suo posto si trovano il poster di quell’ammucchiata di barboni ispanici e afroamericani in ciabatte degli E Street brothers e, ovviamente, quello del nostro italo-irlandese di Freehold, che non ha mai prostituito la sua figura in nessun american movie, fatto arricchire i giornali gossip, ripulito il suo sangue con rollingstoniane trasfusioni in Svizzera, o portato strambe pettinature, nemmeno, pensate, negli anni ’80.
E già, io il profeta me lo sono scelto bene, mica pizze e fichi. Provi, chi non l’ha mai fatto, ad andare a un suo concerto. Se auspica di trovarsi dinanzi a megastrutture da milioni di dollari, assistere a spettacoli con attrazioni pirotecniche, muri che crollano o oggetti volanti non bene identificati che s’innalzano in volo, si sbaglia di grosso. Troverebbe "soltanto" un tizio, circondato da una combriccola di ormai ultrasessantenni, con una vecchia Telecaster scalfita a tracolla, che urla a squarciagola, rotolandosi nel suo sudore come fosse un ballerino, un giocoliere, un acrobata, un pagliaccio o addirittura un attore. Sì, proprio un attore, perché le canzoni di Bruce non sono altro che dei piccoli film in bianco e nero nei quali ogni verso è un’inquadratura, ogni strofa una scena e la melodia la colonna sonora. Canzoni, poesie, che, prese tutte assieme rappresentano una sorta di grande romanzo americano, di cui Bruce, oltre a essere il regista, è, specialmente nelle esibizioni live, l’interprete da premio Oscar.
Queste possono apparire come piccole cose ai più, ma non a quella categoria di persone che orgogliosamente si definisce springsteeniana. Non a me che devo realmente tanto, se non tutto, a questo piccolo folletto del New Jersey che si è appropriato della mia anima, stimolandomi a tastare i primi accordi sulla chitarra e a sospirare nell’armonica (passioni che ancora pratico con una band che, guarda caso, attinge il nome da una sua ballata). Bruce mi ha fatto conoscere i diseredati narrati da Steinbeck che dedicano un’intera esistenza alla ricerca di qualche gallone di vino, gli smarrimenti dell’uomo di fronte alla natura cantati da Dylan Thomas, lo spirito pioneristico dei film western di John Ford, la chitarra ammazza-fascisti di Woody Guthrie, ma, soprattutto, mi ha dato la certezza che, anche per gente che, come me, non ha nessun Dio a cui aggrapparsi, esiste comunque una terra promessa da dover o poter raggiungere o a cui, perlomeno, tentare di arrivare.
Queste che ho narrato sono soltanto poche delle ragioni per cui, ancora oggi, nonostante non porti più i bermuda da tempi ormai remoti, sono fiero di avere il mio eroe, la mia figura, il mio apostolo da seguire, da emulare, da esaltare, ora ancora più di prima.
Un giorno, una nota celebrità disse che se fosse esistito un chirurgo capace di trasformarlo in un eroe del rock, ci sarebbe andato con la foto di Bruce Springsteen. Beh, trovatemi questo chirurgo.




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