lunedì 27 febbraio 2012

COME UN MANGIANASTRI ROSA PUO CAMBIARTI LA VITA (RACCONTO TRATTO DA BRUCESTELLERS)

«C’è chi sulla sua strada ha incontrato Elvis, chi Dylan, chi, molto tempo prima, Giovanni Battista o San Paolo... a me è toccato lui, Joe Strummer», diceva Marino Severini dei Gang. Parole sante. Però, senza nulla togliere a questi (Joe in primis), a chi vi scrive è toccato invece Bruce Springsteen.
E pensare che tutto ebbe inizio per caso, con uno di quei furtarelli che, ancora in bermuda, si facevano più per abbattere la noia che per reale necessità.
Era l’inverno del 1988, l’epoca di
Tunnel of love (per il tredicenne Wood un suono labiale del genere, se percepito, poteva far pensare al massimo all’ultima giostra di Gardaland) e come d’abitudine il sottoscritto, con un paio di siffatti disgraziati, andava a fare il "furtour" all’interno dell’allora unico luogo dove, oltre espropriare, si poteva anche abbattere un po’ il tempo: la Standa.
Quel giorno però, a essere presi di mira dal mio spirito cleptomane non furono, come consuetudine, gli scaffali del supermercato, bensì quelli del reparto musica, zeppo di musicassette, oggetti, almeno come utilizzo, a me ancora sconosciuti (figurarsi se c’era un soldo per acquistare un qualsiasi marchingegno capace di estrapolare il suono contenuto in quelle scatolette). Con il consueto gioco di prestigio delle tre dita che aspiravano sotto la manica della giacca ogni oggetto che passava sotto i polpastrelli, quel giorno a smaterializzarsi dagli scaffali fu una musicassetta sulla cui copertina appariva un tizio in t-shirt e blue jeans, cappello da baseball nella tasca posteriore ed una cinta borchiata, un vaccaro insomma.
Neanche il tempo di pensare alle cinquemila lire che avrei potuto ricavare dalla vendita di tale oggetto, che il Dio degli atei mi venne incontro ricordandomi che mia sorella possedeva una specie di mangianastri rosa, di quelli presi con i punti Dixan, con il quale decisi di disinvestire la mia refurtiva.
Ebbene amici, quella fu forse la mossa più azzeccata della mia esistenza. Quella scatoletta nastrata, a uno che al massimo si era emozionato ascoltando le ultime hits di Sanremo in qualche fottuta radio libera, aprì non uno, ma dieci universi paralleli assieme. Talmente roteò quel nastro nel mangianastri
Dixan che lo stesso, ben presto, andò in frantumi.
Fortunatamente, in seguito, qualche paghetta mi portò un vero stereo, con annessi vinili e soprattutto
Tunnel of love e The wild, the innocent & the E Street shuffle…da lì il passo fu breve nel vincolare mio fratello a farmi da balia per assistere a quello che diventò il primo dei più di venti concerti di Bruce ai quali ho assistito: Roma, 15 giugno 1988, stadio Flaminio, ovvero il giorno in cui Wood divenne devoto: il rock come religione, Bruce come profeta.
Saltiamo, per motivi di spazio, la narrazione dello stupro orgiastico di emozioni che il mio corpo e la mia psiche subirono quella mia prima volta. Parliamo invece della metamorfosi che, da lì, subì la mia persona.
Come ogni devoto che si rispetti, in poco tempo m’impossessai (legalmente) di tutto ciò che riguardasse il profeta: LP, libri, videocassette, bootleg e via dicendo. Tutti oggetti barattati. Sì, perché lui, in cambio, si impossessò della mia persona. Come? Semplice. Cominciai a indossare, come lui, quei jeans aderenti talmente sevizia-testicoli che gli stessi, ancora oggi, implorano pietà, come del resto la implorano i miei piedi che, a furia di indossare stivali Frye, anche con il sole allo zenit nel giorno più torrido dell’anno, sono ormai tutti un callo. Per non parlare poi delle inguardabili maniche delle t-shirt ripiegate su se stesse, che mi hanno fatto addossare la nomea di studente dal peggior look per tutto il quinquennio del liceo. Ma andava bene cosi, perché la mia giacca nera di pelle da Fonzie, che Bruce non ha mai fatto passare di moda, è sempre al suo posto, pronta a essere rispolverata ad ogni prima ventilata di fresco; come al suo posto si trovano il poster di quell’ammucchiata di barboni ispanici e afroamericani in ciabatte degli E Street brothers e, ovviamente, quello del nostro italo-irlandese di Freehold, che non ha mai prostituito la sua figura in nessun american movie, fatto arricchire i giornali gossip, ripulito il suo sangue con rollingstoniane trasfusioni in Svizzera, o portato strambe pettinature, nemmeno, pensate, negli anni ’80.
E già, io il profeta me lo sono scelto bene, mica pizze e fichi. Provi, chi non l’ha mai fatto, ad andare a un suo concerto. Se auspica di trovarsi dinanzi a megastrutture da milioni di dollari, assistere a spettacoli con attrazioni pirotecniche, muri che crollano o oggetti volanti non bene identificati che s’innalzano in volo, si sbaglia di grosso. Troverebbe "soltanto" un tizio, circondato da una combriccola di ormai ultrasessantenni, con una vecchia Telecaster scalfita a tracolla, che urla a squarciagola, rotolandosi nel suo sudore come fosse un ballerino, un giocoliere, un acrobata, un pagliaccio o addirittura un attore. Sì, proprio un attore, perché le canzoni di Bruce non sono altro che dei piccoli film in bianco e nero nei quali ogni verso è un’inquadratura, ogni strofa una scena e la melodia la colonna sonora. Canzoni, poesie, che, prese tutte assieme rappresentano una sorta di grande romanzo americano, di cui Bruce, oltre a essere il regista, è, specialmente nelle esibizioni live, l’interprete da premio Oscar.
Queste possono apparire come piccole cose ai più, ma non a quella categoria di persone che orgogliosamente si definisce springsteeniana. Non a me che devo realmente tanto, se non tutto, a questo piccolo folletto del New Jersey che si è appropriato della mia anima, stimolandomi a tastare i primi accordi sulla chitarra e a sospirare nell’armonica (passioni che ancora pratico con una band che, guarda caso, attinge il nome da una sua ballata). Bruce mi ha fatto conoscere i diseredati narrati da Steinbeck che dedicano un’intera esistenza alla ricerca di qualche gallone di vino, gli smarrimenti dell’uomo di fronte alla natura cantati da Dylan Thomas, lo spirito pioneristico dei film western di John Ford, la chitarra ammazza-fascisti di Woody Guthrie, ma, soprattutto, mi ha dato la certezza che, anche per gente che, come me, non ha nessun Dio a cui aggrapparsi, esiste comunque una terra promessa da dover o poter raggiungere o a cui, perlomeno, tentare di arrivare.
Queste che ho narrato sono soltanto poche delle ragioni per cui, ancora oggi, nonostante non porti più i bermuda da tempi ormai remoti, sono fiero di avere il mio eroe, la mia figura, il mio apostolo da seguire, da emulare, da esaltare, ora ancora più di prima.
Un giorno, una nota celebrità disse che se fosse esistito un chirurgo capace di trasformarlo in un eroe del rock, ci sarebbe andato con la foto di Bruce Springsteen. Beh, trovatemi questo chirurgo.




giovedì 4 agosto 2011

IL CENTRO CITTADINO COME SINONIMO DI MERCATO (QUANDO LA STORIA INSEGNA)

“Tri donn e un coo d'ai, el mercà l'è belle che fai!” (tre donne ed una testa d'aglio e il mercato è subito fatto) dice un vecchio proverbio milanese e forse, al di là della evidente ironia nei confronti di una supposta tendenza alla chiacchiera molto femminile, in queste poche parole si può cogliere l’essenza del mercato: un luogo di incontro, dove il fattore umano conta più della merce in ballo. Mercati e fiere sono infatti fin dalle origini oltre il luogo fisico deputato per eccellenza allo scambio di prodotti e servizi, anche di informazioni e rapporti sociali. Da millenni sono l'occasione della contaminazione tra ambienti distanti, in cui la montagna incontra la frutta e il grano, la pianura, i formaggi e le castagne ed entrambi incontrano i prodotti delle manifatture: ferri, reti, saponi, tessuti. Da più di cinquemila anni rappresentano un formidabile collante sociale che ha permesso  alle diverse comunità di apprendere e progettare la propria permanenza in un dato territorio, spesso inospitale, di ribadire confini e stabilire legami. E da sempre il mercato è il luogo dove si producono le innovazioni alimentari, mutamenti che lo scambio porta insito e che il mercato permette di  governare e contenere entro precisi limiti fisici di tempo e spazio ed è per questo che da sempre lo spazio che ogni comunità ha destinato a queste attività è ben definito, rimarcato nei confini e minuziosamente codificato per utilizzo, tempi, spazi e accesso. Ma andiamo a ripercorrere la storia di questi “fulcri” di vita cittadina in Italia. L’idea del mercato come edificio appositamente costruito per concentrare tutti i mercati cittadini (il forum vinarium, il forum piscarium, il forum olitorium, il forum suarium e via dicendo), il macellum, è da ritenersi propriamente romana e risale al II secolo a.C. L’Urbe diviene in quest’epoca, e per lunghe altre a seguire, un unico grande mercato dove transitano i prodotti e le merci migliori, provenienti dalle popolazioni assoggettate dai Romani, in Italia prima e nell’impero dopo. Tutto ciò grazie ai mercanti i quali, spostandosi in carovana con altri colleghi lungo le vie repubblicane ed imperiali, rivestono un importante ruolo sociale fungendo anche da corrieri per le notizie più importanti. In seguito, verso il tramontare dell’impero romano, quello d’occidente, l’aumento demografico delle città porta alla nascita dei mercati all’aperto, tenuti nelle grandi piazze circondate da portici brulicanti di pedoni, venditori ambulanti, lettighe, vetture a cavallo e carri trainati dai buoi, in un viavai caotico e variopinto ed un vociare continuo amplificato dalle grida di chi vanta le merci migliori e dai rumori degli zoccoli che martellano il terreno. In seguito, durante l’alto Medioevo, l’istituzione del mercato sembra temporaneamente tramontare. Intorno all’anno Mille l’Italia, come l’Europa tutta, diviene un immenso territorio coperto da boschi, foreste, acquitrini, lagune e paludi, dove la popolazione, diminuita di numero causa le guerre, le carestie e l’epidemie incessanti, risiede in piccoli centri, a ridosso di rocche fortificate o di grandi monasteri,  sulle rive dei laghi e dei fiumi navigabili, nei crocevia di grandi strade. Con il definitivo declino dell’impero e l’imporsi dell’economia feudale si va affermando la tendenza a produrre, elaborare  e consumare autonomamente le materie prime alimentari, con il conseguente decadimento della bottega ed, ivi, dei mercati. Ma, partire dall’XI secolo, l’aumento delle superfici destinate alle coltivazioni dovuto alle nuove tecniche agricole, ai disboscamenti, alle bonifiche di paludi e acquitrini, porta ad una maggiore disponibilità di risorse alimentari e quindi ad un ripopolamento generale, specie nei centri urbani. Il notevole aumento di quanti nelle città in quest’epoca vivono, lavorano, consumano (ma non producono) contribuisce ad un ritorno in maniera esponenziale degli scambi commerciali che vanno ad eliminare ogni precedente condizione di isolamento e a rinsaldare le relazioni culturali, sociali ed economiche fra comunità confinanti. Con il crescere degli insediamenti urbani i piccoli mercati che erano nati per il baratto di prodotti nel vicinato si sviluppano per far fronte a scambi di merci sempre più preziose e alla circolazione del denaro. Nel XII secolo i centri delle antiche città tornate a risplendere, e di quelle di recente fondazione, tornano ad essere le naturali sede di mercati periodici e di fiere. Fin dalla mattina presto le strade si animano, gli artigiani aprono le loro botteghe e il mercato si affolla di venditori e acquirenti, mendicanti, ladri, truffatori e giocolieri. Al mercato si trovano cereali, vino, carni, pesce, cibi cotti, dolciumi, stoffe, calzature, cuoi, terraglie, ma sempre al mercato si fanno gli affari, si amministra la giustizia, si tengono le assemblee, si ordiscono congiure e sommosse, si scambiano notizie e pettegolezzi su quanto accade in città. Nel tardo rinascimento un diverso e più audace intuito commerciale, una più larga diffusione del benessere e quindi un’aumentata domanda, il  gusto della raffinatezza proprio di quest’epoca inducono mutamenti e ampliamenti impegnativi  anche nelle attività connesse all’artigianato e al piccolo commercio. Ed ecco la diffusione delle botteghe,  ambienti piccoli, qualche volta dotati di retrobottega o di soppalco,  con grandi aperture verso la strada. Ma alla fine del XVIII secolo una serie di incendi che in varie fiere distruggono merci e botteghe inducono le amministrazioni cittadine ad impegnarsi nella costruzione di grandi strutture in muratura, attrezzate di tutto, non che ben servite da fonti di acqua: è il modello dell’edificio quadrato chiuso, con quattro lotti di edifici al suo interno, grande fontana centrale, monumentali porte d’accesso, che resterà, a parte alcune non rilevanti modifiche, il luogo principale dello svolgersi dei mercati sino a quasi i nostri giorni, quando dovrà affrontare la concorrenza dei nascenti centri commerciali. Una concorrenza  questa, consentitemi, abbastanza sleale.  E’ luogo comune, infatti, che le amministrazioni cittadine (evidentemente hanno il loro tornaconto) si scapicollino per fare gli interessi dei grandi capitalisti e delle multinazionali, titolari dei “mercati di nuova generazione” e, conseguentemente, penalizzare gli altri. Come? Semplice, trasferendo i mercati all’aperto in quartieri difficoltosi da raggiungere, e guardandosi bene dal fornirli dei servizi minimi necessari. Ciò accade sia nelle grandi città come nelle piccole (vedi  Frosinone). Ed è normale che singoli cittadini, famiglia intere, masse di persone  sono indotti per forza di cose a fare i loro acquisti nei grandi centri commerciali, provvisti di ampi parcheggi, comodi da raggiungere, freschi in estate, caldi d’inverno, a tutto discapito naturalmente degli stessi consumatori - che mai usufruiranno in questi luoghi della stessa convenienza di prezzi proposti dai banchi dei mercati all’aperto o, nel caso dei prodotti alimentari, della stessa qualità e freschezza - e soprattutto di quelle categorie di persone, come anziani e disabili, impossibilitate ad affrontare medi e lunghi spostamenti, vuoi per l’età e per gli handicap, vuoi perché  privi di mezzi di trasporto. Disagi che potrebbero essere risolti soltanto attraverso la rivalutazione (ricollocazione nel centro cittadino) del tipico mercato all’aperto, o ancor meglio con la ridiffusione del mercato rionale. In conclusione, se per i Romani fu un luogo di conoscenza e di incontro, per l’Italia medievale delle cento città e dei mille borghi divenne luogo di rappresentazione e competizione, occasioni nelle quali si misurava la forza delle campagne, degli allevamenti dei contadi, della qualità della terra e della perizia dei contadini,  ancora oggi, come accade per tutte le cose semplici ed antiche, il significato dei mercati “propriamente detti” va molto al di là della semplice distribuzione. Oltre a permettere di acquistare prodotti migliori a prezzi migliori, svolgono una funzione di scambio tra città e campagna, di spazio della memoria dove si incontrano l’essere metropolitano e il saper fare rurale, dove i sapori e le storie individuali si contaminano alla ricerca di una genuinità che non è solo qualità dei prodotti ma anche espressione di una storia collettiva. I mercati rappresentano un pezzo della storia delle città italiane e, nonostante crisi e riorganizzazioni, mantengono inalterato il fascino che li caratterizza. Nel cuore delle città e dei cittadini, questi mercati rappresentano (e devono continuare a farlo!) grandi punti di riferimento. Ricchi di storia, di cultura, e soprattutto di interessi economici rappresentano anche una porta aperta verso il rinnovamento futuro. La bellezza di questi luoghi può essere legata a molteplici fattori di carattere puramente storico, grazie agli avvenimenti che li hanno interessati, o magari a fattori di carattere architettonico e culturale. Ma un aspetto determinate è l’anima forte e coriacea rappresentata dalla gente, dalla popolazione che li anima e li vivacizza. Recarsi in un mercato, rionale o cittadino che sia, significa entrare in contatto con una ricchezza di sensazioni, esperienze e tradizioni che pochi altri luoghi sono capaci di offrire. Oggi, infatti, è in grado di dare nonostante la fatica che lo stesso e i suoi protagonisti devono fare ogni giorno per difendere un’arte, quella mercatoria, che vuole ancora essere al servizio del cittadino, nonostante concorrenti, leciti o meno... Il mercato è diverso da altre forme di commercio. E’ quasi un regalo che il cliente si concede, una vera scelta di libertà, dove l’acquisto dei prodotti è solo uno degli aspetti di questa piccola avventura urbana che ci si può concedere senza rischi e costi… Sta all’entourage politico permetterci  di farcela vivere ancora.                                                                                             
                                                                                                                                                     
Gianluca “Wood” Pucci

lunedì 20 giugno 2011

BIG MAN

"NULLA HA MAI FINE". LETTERA DI UNO SPRINGSTEENIANO A CLARENCE CLEMONS.

“It’s over”. Queste sono le parole, leggenda o meno, che Bruce Springsteen comunica con una telefonata a Clarence Clemons, impegnato in tour con Ringo Starr, nel lontano 1989. It’s over Clarence… è finita. A quella frase Grande Uomo, convinto che Bruce facesse riferimento alla sua temporanea esperienza con Ringo Starr and His All Starr Band, felice come un bambino che dipinge risponde: “Ok Bruce, I'll be right”, pronto ed ansioso nel tornare di nuovo in pista con i suoi Blood Brothers. Ma aveva capito male Grande Uomo… ciò che era finita era un’altra storia… quella di Bruce Springsteen & The E Street Band.
Quello che avverrà poi è scritto negli annali del rock: dieci anni di pausa coatta e poi, tutti, di nuovo assieme, con una combriccola ampliata e con un sound più esplosivo e raffinato che mai. Ma allora, in quel lontano 1989, Grande Uomo non accettò proprio la decisione del suo “Capo”… pare che, addirittura, non gli rivolse parola alcuna per lungo tempo a seguire.
Oggi, invece, e mi rivolgo a te, in prima persona, Grande Uomo, le cose sono andate un po’ diversamente, perché a pronunciare quelle aspre e crude parole, it’s over, forse anche solo a te stesso, all’ultimo sospiro, sei stato proprio tu. Ma questa volta, a non accettare le stesse, il loro senso, il loro volere, siamo noi. Si, proprio cosi, noi… non solo il sottoscritto, ma “noi molti”, perché devi concedermi la strafottenza, Grande Uomo, di farmi portavoce di quella grande famiglia di atipici rockettari che (chi più, chi meno, i suoi figliocci) da ormai remoti tempi si definisce orgogliosamente e testardamente Springsteeniana, Estreetbandiana ed oggi, più che mai, Clemonsiana.
Ti dico ciò, amico mio, perché per quelli come noi che si vive i concerti, il rock, la musica non come semplice ammazza tempo o passeggero diletto, ben si come  religione, con tanto di profeti da osannare ed emulare a testa alta, non esiste nulla, niente che abbia la maestà o la prestanza di prosciugare quelle emozioni, che qualche accordo, un po’ di note, o svariate parole messe assieme ne danno sorgente, e  che poi, come un fiume in piena, sgorgano dentro te… non c’è chiusa, argine o diga che tenga! E gran parte di queste emozioni, Grande Uomo, ce le hai regalate tu. Si, proprio tu, con il tuo fucile, quel saxofano che per lustri ha sparato melodie che, per il loro travolgere, non potevano non colpire dritte al cuore, quello stesso saxofono, impasto di plastica, silicone e ferraglia, che è riuscito a trasformare nello stesso arco di tempo l’aria vuota nelle più magiche delle musiche.
 E queste emozioni resteranno per sempre vive in noi, come tali lo saranno i ricordi… quelli dei tuoi scheck, spassosi siparietti da accademici teatranti con Bruce, della tua buffa e baritonale voce comunque da standing ovation, dei tuoi “da copione” sporadici ed intensi sorrisi, e soprattutto quelli del tuo, a posteri eterno, immortalamento, spalla a spalla, col tuo amico di sempre in quel quadro che è divenuto la copertina di uno dei capolavori della Storia del Rock, Storia nella quale tu, Grande Uomo, ci sei entrato di DIRITTO e con GLORIA, in un posto d’onore, dove nessuno, nemmeno Apollo, ti ci potrà mai più schiodare.
Quelli come te, fratello, non si dimenticano cosi facilmente, sappilo, specie dopo migliaia e migliaia di chilometri, ettolitri di sudore, e monete del vecchio e nuovo conio piacevolmente ed orgogliosamente consumati per vederti, ascoltarti, od anche solo sfiorarti... non meno di quel piccolo eroe del New Jersey che, di fianco la tua maestosità, diveniva, ad ogni concerto, simpaticamente ancor più minuto.
Per questo, Grande Uomo, non è finito proprio un emerito cazzo! Perchè non ho mai avuto più salde certezze di quante ne ho ora, in questo istante, mentre sto ascoltando il tuo incantevole assolo su Jungleland ed una lacrima, devo ammetterlo, sta attraversando il mio viso: che alla prossima maratona di Bruce tu, Grande Uomo, sarai ancora dei nostri, che sia ad Asbury, al Madison, in qualche fottuto palazzetto metropolitano, oppure a San Siro, magari di nuovo sotto il diluvio, tutti insieme, noi sotto e voi un gradino su, lost in the flood, certi pero che questa volta i lampi nella notte saranno i tuoi immensi scintillanti occhi che troneggiano dalle ombre della tua pelle, i tuoni, gli assoli del saxofano sprigionati dalle tue spesse e carnose labbra, la pioggia, le tue lacrime… lacrime di gioia, per la consapevolezza di essere di nuovo uno degli artefici dell’ennesimo grande spettacolo del rock, e, soprattutto, per l’emozionarti nell’udire ancora, dietro alle parole di Bruce: ”The biggest man you've ever seen…”, noi, con un boato unisono, urlare il tuo nome.
Goodbye  Big Man

martedì 7 giugno 2011

Meditando

E quando il Mezscal, dal fondo delle sua ancor integra bottiglia, inquieto, angosciato osservò il tappo roteare, allora, e solo allora, realizzò che la sua prossima fine, l’improrogabile, non si sarebbe fatta attendere molto: quella bramosa, agognante pupilla non attendeva altro.


La ragione della scienza del surreal non ha clemenza, ed offusca con potenza dello stesso la demenza.

NOTTE CUBANA

Nei viali sapori di sabbie, benzine e di sigaro,
colori di muri dipinti e sculture d’ebano;
baccano si fa nelle case, perse nelle Favelas,
festa in ogni paese, fuori è già sera.
Lumi soffuse ninnate dal vento caliente dei mari del sud,
insegne vecchie, spente dal tempo qualcuno butta giù,
stufe guardie di ronda, custodi in tutta L’Havana,
un gabbiano è preso da un onda: è notte cubana.

E danzatrici vestite di nulla mentre leggero un suono le culla,
suono di tromba, violino, flauto e chitarra fino al mattino
e venditori di erbe e coralli cercano gloria tra fuochi e balli
mentre le donne di vita con canti offrono gioia a tutti i passanti,
come sirene nelle favole,
come i tanti viaggi e sogni fatti di parabole,
tra stanchi poeti, finti gioielli,
sabbie d’argento, loschi bordelli.

Finestre di legno cadenti, stanche barcollano,
remoti vessilli stinti nel cielo s’innalzano,
odore di riso e pescado, barche sommerse dal vuoto,
brillano luci lontano: stelle sul molo.
Cantine e botteghe di voci, di fumo s’impregnano,
giovani folli a colpi di Rum si affrontano;
diecimila chilometri a Mosca, la tele regna sovrana,
il vento bussa alla porta: è’ notte cubana.

E nei vicoli ispanici, bianchi, negri, meticci adornano i banchi,
una donna dal viso piangente chiede profumi all’uomo d’oriente,
i bambini con i palloni tirano calci al tempo e ai signori
ed un uomo dall’abito sporco porta frescura con succo di cocco,
come il ghiaccio dell’estate
o come  possono le fate,
tra auto passate, salsa e mohito,
piazze ammassate… sogno rapito.

Mille motivi per andare avanti, ladri, puttane, maghi e cantanti,
e lo yankey  va predicando dollari, finte illusioni ed embargo,
ed un vecchio soldato ormai pazzo, spoglio è di vesti sopra un terrazzo,
indosso ferite di guerra quando si dava battaglia su in Sierra.
Ma l’america è vicina,
l’uomo nero si incammina.
Kruscov to est, in west Kennedy.
Old Bucarest in tropici.
Tra gioie, dolori, qualche gommone,
mille santoni…ma un sol padrone.

domenica 22 maggio 2011

L'AUTISTA DI CONAN DOYLE

"Avevo il diritto di viverla, quella felicità. Non me lo avete concesso. E allora, è stato peggio per me, pegggio per voi, peggio per tutti...Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti si, ma in ogni caso nessssun rimorso..." Cosi scrive su un quaderno a quadretti, prima de essere colpito a morte dalla gendarmeria, Jules Bonnot, il nemico pubblico di Parigi nei primi anni del secolo, geniale rapinatore, appassionato di auto e motori, capo di una banda di anarchici che si prese beffa dell' "ordine" francese per un lungo periodo di tempo facendo così scattare una feroce repressione antiproletaria. La biografia di Bonnot è davvero singolare: operaio, soldato, autista nientemeno che del creatore di Sherlock Holmes, Sir Arthur Conan Doyle; e poi il sogno di una felicità rabbiosa da lungo tempo accarezzata ma mai raggiunta per via del suo attivismo come sindacalista non consono agli stilemi governativi del tempo, che lo trasforma nel primo rapinatore ad usare le automobili e nell'anarchico convinto di dover colpire la società borghese senza mezze misure, creando il caos, facendo più rumore possibile, rischiando il tutto per tutto. Eroe tragicamente romantico, Jules Bonnot, al quale ho voluto dedicare una mia canzone che forse in seguito pubblicherò tra queste pagine, rientra a pieno titolo nei miei "banditi senza tempo".

venerdì 20 maggio 2011

UN POSTO CHIAMATO LIBERTA

Marciano lungo i sentieri, irregolari, stanchi e fieri,
senza forze e ne fortuna, illuminati dalla luna,
tra fango, neve, vento, pioggia, polvere, cercando Libertà.
Guardano le foto, tristi: sorrisi, visi, mai più visti;
gettano fiumi d’inchiostro da spedire a nessun posto,
raccontando come possa essere diversa Libertà.
Poi, nel mentre, nel cammino, con fucili per cuscino,
foglie secche, legna, erba, fuochi accesi per coperta,
dormono, cercando di toccare, di sentire Libertà.
Si nutrono di fiori e bacche, fanno scorta nelle sacche
di acqua insipida e coraggio da portare lungo il viaggio,
viaggio verso il paradiso mai visto, chiamato Libertà.
Lavano le pelli sporche in freddi fiumi, grigie pozze,
suonano chitarre vuote, ormai scordate, senza note,
cantando a cori spenti quanto è bella, quanto è dolce Libertà.

Lontani da popoli e città, aspettando quel giorno che verrà.
Mai guerra, ne armata, ne pietà, mai uomo, ne Dio li fermerà.

Osservano al buio il nemico, ogni sua mossa, ogni sospiro,
lottano contro Natura impervia, muta, ostile, scura,
diffidano il contado, inconsapevole di come è Libertà.
Hanno tutti nella tasca, intorno al collo o bene in vista,
scolpita in ebano od in noce, faggio, frassino, una croce
pronta da donare a chi per sorte non raggiunge Libertà.
Non sanno più cos’è l’amore, il gioco, l’ozio, la passione,
non hanno un letto, ne una casa, vagano senza una meta,
col desiderio, un giorno, d’incontrare sulla strada Libertà.
In giorni, mesi di tempesta, niente, nulla più gli resta,
ne una donna, neanche un nome, una patria, un salvatore,
solo la speranza, ma anche il dubbio di trovare Libertà.
Piangono, la notte, soli, senza lacrime o rumori,
aspettando un nuovo giorno, c’è chi spera un altro mondo,
dove in ogni piazza, in ogni luogo bene iscritto è Libertà.

Lontani da popoli e città, aspettando quel giorno che verrà.
Mai guerra, ne armata, ne pietà, mai uomo, ne Dio li fermerà.
Lontani da popoli e città, aspettando quel giorno che verrà.
Mai guerra, ne fronte, ne pietà, mai uomo, ne Dio li fermerà.