giovedì 4 agosto 2011

IL CENTRO CITTADINO COME SINONIMO DI MERCATO (QUANDO LA STORIA INSEGNA)

“Tri donn e un coo d'ai, el mercà l'è belle che fai!” (tre donne ed una testa d'aglio e il mercato è subito fatto) dice un vecchio proverbio milanese e forse, al di là della evidente ironia nei confronti di una supposta tendenza alla chiacchiera molto femminile, in queste poche parole si può cogliere l’essenza del mercato: un luogo di incontro, dove il fattore umano conta più della merce in ballo. Mercati e fiere sono infatti fin dalle origini oltre il luogo fisico deputato per eccellenza allo scambio di prodotti e servizi, anche di informazioni e rapporti sociali. Da millenni sono l'occasione della contaminazione tra ambienti distanti, in cui la montagna incontra la frutta e il grano, la pianura, i formaggi e le castagne ed entrambi incontrano i prodotti delle manifatture: ferri, reti, saponi, tessuti. Da più di cinquemila anni rappresentano un formidabile collante sociale che ha permesso  alle diverse comunità di apprendere e progettare la propria permanenza in un dato territorio, spesso inospitale, di ribadire confini e stabilire legami. E da sempre il mercato è il luogo dove si producono le innovazioni alimentari, mutamenti che lo scambio porta insito e che il mercato permette di  governare e contenere entro precisi limiti fisici di tempo e spazio ed è per questo che da sempre lo spazio che ogni comunità ha destinato a queste attività è ben definito, rimarcato nei confini e minuziosamente codificato per utilizzo, tempi, spazi e accesso. Ma andiamo a ripercorrere la storia di questi “fulcri” di vita cittadina in Italia. L’idea del mercato come edificio appositamente costruito per concentrare tutti i mercati cittadini (il forum vinarium, il forum piscarium, il forum olitorium, il forum suarium e via dicendo), il macellum, è da ritenersi propriamente romana e risale al II secolo a.C. L’Urbe diviene in quest’epoca, e per lunghe altre a seguire, un unico grande mercato dove transitano i prodotti e le merci migliori, provenienti dalle popolazioni assoggettate dai Romani, in Italia prima e nell’impero dopo. Tutto ciò grazie ai mercanti i quali, spostandosi in carovana con altri colleghi lungo le vie repubblicane ed imperiali, rivestono un importante ruolo sociale fungendo anche da corrieri per le notizie più importanti. In seguito, verso il tramontare dell’impero romano, quello d’occidente, l’aumento demografico delle città porta alla nascita dei mercati all’aperto, tenuti nelle grandi piazze circondate da portici brulicanti di pedoni, venditori ambulanti, lettighe, vetture a cavallo e carri trainati dai buoi, in un viavai caotico e variopinto ed un vociare continuo amplificato dalle grida di chi vanta le merci migliori e dai rumori degli zoccoli che martellano il terreno. In seguito, durante l’alto Medioevo, l’istituzione del mercato sembra temporaneamente tramontare. Intorno all’anno Mille l’Italia, come l’Europa tutta, diviene un immenso territorio coperto da boschi, foreste, acquitrini, lagune e paludi, dove la popolazione, diminuita di numero causa le guerre, le carestie e l’epidemie incessanti, risiede in piccoli centri, a ridosso di rocche fortificate o di grandi monasteri,  sulle rive dei laghi e dei fiumi navigabili, nei crocevia di grandi strade. Con il definitivo declino dell’impero e l’imporsi dell’economia feudale si va affermando la tendenza a produrre, elaborare  e consumare autonomamente le materie prime alimentari, con il conseguente decadimento della bottega ed, ivi, dei mercati. Ma, partire dall’XI secolo, l’aumento delle superfici destinate alle coltivazioni dovuto alle nuove tecniche agricole, ai disboscamenti, alle bonifiche di paludi e acquitrini, porta ad una maggiore disponibilità di risorse alimentari e quindi ad un ripopolamento generale, specie nei centri urbani. Il notevole aumento di quanti nelle città in quest’epoca vivono, lavorano, consumano (ma non producono) contribuisce ad un ritorno in maniera esponenziale degli scambi commerciali che vanno ad eliminare ogni precedente condizione di isolamento e a rinsaldare le relazioni culturali, sociali ed economiche fra comunità confinanti. Con il crescere degli insediamenti urbani i piccoli mercati che erano nati per il baratto di prodotti nel vicinato si sviluppano per far fronte a scambi di merci sempre più preziose e alla circolazione del denaro. Nel XII secolo i centri delle antiche città tornate a risplendere, e di quelle di recente fondazione, tornano ad essere le naturali sede di mercati periodici e di fiere. Fin dalla mattina presto le strade si animano, gli artigiani aprono le loro botteghe e il mercato si affolla di venditori e acquirenti, mendicanti, ladri, truffatori e giocolieri. Al mercato si trovano cereali, vino, carni, pesce, cibi cotti, dolciumi, stoffe, calzature, cuoi, terraglie, ma sempre al mercato si fanno gli affari, si amministra la giustizia, si tengono le assemblee, si ordiscono congiure e sommosse, si scambiano notizie e pettegolezzi su quanto accade in città. Nel tardo rinascimento un diverso e più audace intuito commerciale, una più larga diffusione del benessere e quindi un’aumentata domanda, il  gusto della raffinatezza proprio di quest’epoca inducono mutamenti e ampliamenti impegnativi  anche nelle attività connesse all’artigianato e al piccolo commercio. Ed ecco la diffusione delle botteghe,  ambienti piccoli, qualche volta dotati di retrobottega o di soppalco,  con grandi aperture verso la strada. Ma alla fine del XVIII secolo una serie di incendi che in varie fiere distruggono merci e botteghe inducono le amministrazioni cittadine ad impegnarsi nella costruzione di grandi strutture in muratura, attrezzate di tutto, non che ben servite da fonti di acqua: è il modello dell’edificio quadrato chiuso, con quattro lotti di edifici al suo interno, grande fontana centrale, monumentali porte d’accesso, che resterà, a parte alcune non rilevanti modifiche, il luogo principale dello svolgersi dei mercati sino a quasi i nostri giorni, quando dovrà affrontare la concorrenza dei nascenti centri commerciali. Una concorrenza  questa, consentitemi, abbastanza sleale.  E’ luogo comune, infatti, che le amministrazioni cittadine (evidentemente hanno il loro tornaconto) si scapicollino per fare gli interessi dei grandi capitalisti e delle multinazionali, titolari dei “mercati di nuova generazione” e, conseguentemente, penalizzare gli altri. Come? Semplice, trasferendo i mercati all’aperto in quartieri difficoltosi da raggiungere, e guardandosi bene dal fornirli dei servizi minimi necessari. Ciò accade sia nelle grandi città come nelle piccole (vedi  Frosinone). Ed è normale che singoli cittadini, famiglia intere, masse di persone  sono indotti per forza di cose a fare i loro acquisti nei grandi centri commerciali, provvisti di ampi parcheggi, comodi da raggiungere, freschi in estate, caldi d’inverno, a tutto discapito naturalmente degli stessi consumatori - che mai usufruiranno in questi luoghi della stessa convenienza di prezzi proposti dai banchi dei mercati all’aperto o, nel caso dei prodotti alimentari, della stessa qualità e freschezza - e soprattutto di quelle categorie di persone, come anziani e disabili, impossibilitate ad affrontare medi e lunghi spostamenti, vuoi per l’età e per gli handicap, vuoi perché  privi di mezzi di trasporto. Disagi che potrebbero essere risolti soltanto attraverso la rivalutazione (ricollocazione nel centro cittadino) del tipico mercato all’aperto, o ancor meglio con la ridiffusione del mercato rionale. In conclusione, se per i Romani fu un luogo di conoscenza e di incontro, per l’Italia medievale delle cento città e dei mille borghi divenne luogo di rappresentazione e competizione, occasioni nelle quali si misurava la forza delle campagne, degli allevamenti dei contadi, della qualità della terra e della perizia dei contadini,  ancora oggi, come accade per tutte le cose semplici ed antiche, il significato dei mercati “propriamente detti” va molto al di là della semplice distribuzione. Oltre a permettere di acquistare prodotti migliori a prezzi migliori, svolgono una funzione di scambio tra città e campagna, di spazio della memoria dove si incontrano l’essere metropolitano e il saper fare rurale, dove i sapori e le storie individuali si contaminano alla ricerca di una genuinità che non è solo qualità dei prodotti ma anche espressione di una storia collettiva. I mercati rappresentano un pezzo della storia delle città italiane e, nonostante crisi e riorganizzazioni, mantengono inalterato il fascino che li caratterizza. Nel cuore delle città e dei cittadini, questi mercati rappresentano (e devono continuare a farlo!) grandi punti di riferimento. Ricchi di storia, di cultura, e soprattutto di interessi economici rappresentano anche una porta aperta verso il rinnovamento futuro. La bellezza di questi luoghi può essere legata a molteplici fattori di carattere puramente storico, grazie agli avvenimenti che li hanno interessati, o magari a fattori di carattere architettonico e culturale. Ma un aspetto determinate è l’anima forte e coriacea rappresentata dalla gente, dalla popolazione che li anima e li vivacizza. Recarsi in un mercato, rionale o cittadino che sia, significa entrare in contatto con una ricchezza di sensazioni, esperienze e tradizioni che pochi altri luoghi sono capaci di offrire. Oggi, infatti, è in grado di dare nonostante la fatica che lo stesso e i suoi protagonisti devono fare ogni giorno per difendere un’arte, quella mercatoria, che vuole ancora essere al servizio del cittadino, nonostante concorrenti, leciti o meno... Il mercato è diverso da altre forme di commercio. E’ quasi un regalo che il cliente si concede, una vera scelta di libertà, dove l’acquisto dei prodotti è solo uno degli aspetti di questa piccola avventura urbana che ci si può concedere senza rischi e costi… Sta all’entourage politico permetterci  di farcela vivere ancora.                                                                                             
                                                                                                                                                     
Gianluca “Wood” Pucci

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